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Fallimento delle Regioni? Galan: andrebbero abolite. Oppure lo Stato...
Giovedi 23 Aprile 2015 alle 09:49 | 0 commenti
Le parole che non t’aspetti sulle Regioni le pronuncia un incarognito Giancarlo Galan: «Andrebbero abolite. Oppure va abolito lo Stato. Uno dei due è di troppo». Quantomeno irriverente, penserete, da parte di chi è stato un decennio potentissimo presidente della Regione Veneto e poi ben due volte ministro prima di essere azzoppato dall’inchiesta giudiziaria sulle tangenti del Mose.
Ma il suo sfogo dagli arresti domiciliari con il giornalista del Corriere Goffredo Buccini che lo intervista per il suo libro «Governatori – così le Regioni hanno devastato l’Italia», edito da Marsilio e da oggi in libreria, è la fotografia più nitida dell’assurda deriva imboccata dal nostro Paese con un regionalismo protervo a accattone.

Il crollo della partecipazione al voto alle ultime elezioni in Emilia-Romagna e Calabria è un sintomo che dovrebbe preoccupare una classe politica miope e distratta. Mai come in questo momento, alla vigilia di una tornata elettorale cruciale, le Regioni sono state in crisi di popolarità e di identità . Fra scandali sull’uso oltraggioso dei denari pubblici, sprechi vergognosi di risorse collettive e inefficienze nella sanità , hanno toccato il punto più basso dalla nascita, nel 1970. Tanto da far sorgere interrogativi sulla loro stessa esistenza. «Se la democrazia italiana non si libererà dalla zavorra delle Regioni», scrive Buccini, «le Regioni trascineranno a fondo la democrazia italiana. Accomunate dal brutto neologismo di Rimborsopoli o da scandali altrettanto devastanti, le Regioni sono fumo negli occhi per sei italiani su dieci secondo l’Istat. Nel 2000 il 44 per cento degli italiani se ne fidava, nel 2008 il 39 per cento, nel 2014 solo il 14 per cento. Almeno trecento sono stati i consiglieri regionali inquisiti. Le leggi regionali vigenti sono oltre ventimila e il contenzioso Stato-Regioni è arrivato a pesare per un terzo sul lavoro della Corte costituzionale (...) Ma soprattutto, a marcare la differenza fra il prima e il dopo, è la nascita di venti piccoli capi di Stato…».

Quelli ormai diventati, in un immaginario collettivo deformato dai media i «governatori». Sono i protagonisti di questo libro sorprendente, che attraverso le loro parole e le storie di ognuno mette a nudo le metastasi di un sistema degenerato. Perché dietro a tutto ci sono gli uomini e le donne.

C’è l’ex presidente della Lombardia, il «Celeste» Roberto Formigoni che paragonava se stesso a Gesù («…anche lui ha amato intensamente ma vissuto virginalmente»). L’uomo che è stato al potere per diciotto anni consecutivi, più di ogni altro politico italiano nel dopoguerra. Incurante del diluvio di polemiche e indagini. Per quelle, si appella alla legge dell’Altissimo: «Sono un peccatore, non un colpevole».

Nemmeno Galan, con il suo «sguardo da lampadina fulminata», nella gabbia dei domiciliari, si reputa colpevole. Dice che ha patteggiato la condanna per costrizione. Ammette che se in Italia c’è oggi aria da 1992 è colpa anche dei politici. Ma poi ringhia che «il popolo ama Gheddafi fino al giorno prima e poi lo uccide barbaramente con i suoi figli. Il popolo è Robespierre». Sarà per risentimento verso gli elettori giacobini che non si è ancora dimesso da presidente della commissione Cultura della Camera?

C’è Piero Marrazzo, travolto dalla vicenda delle sue frequentazioni con transessuali, che ancora non sembra aver realizzato che cosa davvero ha combinato. «D’accordo, ho sbagliato come persona pubblica (…) però quello che mi è successo (…) non è successo in una Regione italiana ma nella vita di una persona, hanno solo colpito un uomo e la sua famiglia». C’è pure chi di Marrazzo ha preso il posto, Renata Polverini: «Non è una donna, è un’unità combattente». Che però non riesce ad arginare la frana che travolge prima il consiglio regionale e poi la sua giunta. C’è Antonio Bassolino, a sua volta travolto dalla valanga immane dei rifiuti che sommerge la Campania otto anni dopo. E adesso recrimina: «Se avessi potuto rifare il sindaco… altro che presidente di Regione. Quella era la mia vita!».

C’è Giuseppe Scopelliti, «Peppe o’ dj», simbolo vivente del naufragio della Calabria, con il suo «incedere curiale, una stretta di mano morbida, rotondità da antico democristiano». C’è Nichi Vendola, che confessa di non aver mai pianto in vita sua come quando è finito il grande freddo con i genitori sconvolti dalla rivelazione della sue omosessualità . Fu un giorno che sentirono alla radio il suo discorso al Gay Pride del 2000. «Mi telefonò mia madre: “Papà ha detto che ti dobbiamo chiedere perdonoâ€Â». E racconta che la sua battaglia più grande «è sempre stata contro il centrosinistra. Era più facile battere Fitto che non D’Alema». C’è Rosario Crocetta, il «Poeta tragediatore», gay dichiarato al pari di Vendola, che vuole cambiare «una Regione nella quale, degli ultimi due presidenti, uno è in galera e l’altro sotto processo per questioni legate alla mafia…» Ma deve fare i conti con la maledizione di un’autonomia che ha ridotto la sua Sicilia a un rovinoso buco nero di clientele.

C’è Vasco Errani, estromesso per una condanna: lascia a Stefano Bonaccini un’Emilia-Romagna che gli elettori hanno abbandonato. Sovvertendo l’adagio andreottiano secondo cui «il potere logora chi non ce l’ha». Né poteva mancare Roberto Cota, eclissato da un paio di mutande color verde leghista. Che grazie a questo libro scopriamo non essere mai state proprio verdi. E nemmeno mutande. «Erano pantaloncini», dice lui. «Di che colore?», fa Buccini. «Non so, di diversi colori. A fiori. Da bagno, capito?». Buccini insiste, senza pietà : «Coi fiori. Fondo verde?» «Non me lo ricordo. Ma non erano verdi! Quando si è avviata l’inchiesta ho fatto mente locale, erano finiti per sbaglio nei rimborsi. Ho rimediato, ripagato. Prima dell’avviso di garanzia. Quindi non esiste neanche il fatto che fossero pagati con soldi pubblici, che poi erano privati». Privati, sì: ma dei privati contribuenti, caro Cota.
di Sergio Rizzo dal Corriere della Sera
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