Per Vendola meglio dire amici: dalla liturgia all'archeologia, la parola compagni in soffitta
Lunedi 18 Luglio 2011 alle 23:54 | 0 commenti
Da la Repubblica, di Filippo Ceccarelli
Su fratelle e su comp... alt, fermi, crrr, zzz, bip-bip-bip, il disco si è rotto, il meccanismo s' inceppa e così anche l' infallibile macchina narrativa, il prodigioso dispenser emozionale di Nichi Vendola non vuole più saperne di pronunciare quella parola lì: compagni. E' vecchia. E' pesante. E' ingombrante. Suona un po' forzata e quindi fasulla (immagine del film I compagni di Mario Monicelli).
Compagni, dai campi e dalle officine: ma quali campi e che diavolo di officine? In vena di ispirato autobiografismo, il presidente della regione Puglia (pescato da Repubblica.it, che ha portato alla luce la notizia) ha pure detto che sin da giovane gli sarebbe piaciuto di più «amici».
Ma nel Pci di trent' anni orsono non si poteva. «Amici» oltretutto si chiamavano tra loro i democristiani, con effetti per lo più stranianti dato che amici non erano affatto, e notoriamente. Quando negli anni 60 le Acli fecero «la scelta di classe» - si diceva proprio così e allora quasi tutti capivano - nei loro raduni si inaugurò una formula rituale di saluto che doveva accontentare anche i dc: «Amici e compagni». Ma anche senza l'appellativo raddoppio «compagni» resta archeologico, vetero-linguistico. E sarà certamente anche glorioso, tale da evocare in milioni di persone ricordi commoventi, soffioni di nostalgia e tanta letteratura, poesia, cinema, musica, ma oggi «compagni» pare abbastanza superato, prova ne sia un certo fascino vintage o suggestioni tipo bianco e nero. Senza offesa. Le liturgie sono cose serie, come senz' altro lo furono nel secolo scorso le identità e le culture politiche, le appartenenze e le grandi narrazioni collettive, ma anche loro perdono energia e poi irrimediabilmente si consumano; fino a rendere plausibile il dubbio che discussioni del genere, ancorché cicliche (l'attore Fabrizio Gifuni a un meeting del Pd un anno fa), siano anche una perdita di tempo. In realtà la parola, anzi l' invocazione «compagni»è rimasta vittima della tecnologia, in particolare delle visioni a distanza, insomma della tv. E' negli studi televisivi che si spegne il calore dell' espressione « cum panis », dal latino delle corporazioni medioevali, dinanzi alle telecamere non si spezza più il pane con nessuno, è lì che viene meno quella vicinanza, quel guardarsi in faccia, quella reciprocità di rapporti umani. Impossibile dimenticare il sopracciglio inarcato di D'Alema, allora presidente del Consiglio, quando un incauto segretario di sezione ds gli si rivolse con il tu a qualche Ballarò. Non c' erano già più compagni in questa Italia fatta di divi, pubblico e figuranti. Eppure si può dire che al termine di una stagione che fu anche di scomuniche («Non è più un compagno») e di ambiguità («Un compagno non può averlo fatto») l'espressione continuò a vivacchiare nelle pieghe del discorso della sinistra, sempre più flebile in mezzo all' erosione ideologica e allo scombussolamento delle forme. Con il dovuto arbitrio si può addirittura valutare che un colpo decisivo nel senso della dismissione lo diede una formidabile definizione che nel 1996 il ministro Filippo Mancuso riciclò dall' orrenda cronaca del mostro di Firenze per scagliarla addosso all' allora premier Dini e al Capo dello Stato Scalfaro: «Compagni di merende». Anche se poi le vie della dissacrazione beffarda, seppur lastricate di innocenti parodie, condussero addirittura al «compagno Fini». A quel punto, con buona pace di Vendola e dei suoi ripensamenti, una storia si era chiusa - e per il pensiero, forse, si aprono insperabili orizzonti.
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