A Bolzano Vicentino Paola Farina: vite ebraiche nel vicentino durante la deportazione
Venerdi 27 Gennaio 2012 alle 10:07 | 0 commenti
Venerdi 27 gennaio ore 20:30 in sala consiliare proiezione del documentario:"Auschwitz, la fabbrica dello sterminio" e a seguire intervento di "Paola Farina" sul tema: "Vere storie di vita ebraica nel vicentino durante la deportazione" il cui documento base anticipiamo qui.
Ho maturato la scelta di studiare le vicissitudini degli ebrei internati nel vicentino, provenienti dai paesi dell'ex Jugoslavia dietro la spinta di un'istanza primaria, di natura personale, legata alle mie ricerche iniziate all'età di 25 anni, ma soprattutto alla scoperta delle mie radici violate.
L'aver avuto accesso all'Archivio di Stato di Vicenza, alla sezione Fondi Speciali di Polizia arch. 1940-1945, con regolare autorizzazione del Ministero dell'Interno, mi ha permesso di esplorare il territorio vicentino e di parlare direttamente con alcuni sopravissuti, acquisendo nel corso degli anni un patrimonio più che storico di gran valore umano.
La conoscenza storica degli eventi in loco è pressoché sconosciuta, soprattutto tra i giovani, più attaccati al loro stile di vita ed evoluzioni quotidiane, prive della capacità di un confronto autentico, coinvolgente e provocante con l'altra parte della vita, che ha creato le basi per la loro esistenza.
Vorrei trasmettere ai giovani quell'apatia collettiva che circa settanta anni fa ha permesso all'antisemitismo neofascista di evolversi progressivamente nella direzione dello sterminio organizzato di sei milioni d'ebrei, contrapponendo quest'indifferenza al coraggio di chi si è adoperato per contribuire alla salvezza di quanti si sono salvati.
Volevo scrivere un libro e più volte sono stata contattata anche da alcune produzioni televisive, perfino straniere. Ho poi lasciato correre questa parte d'interesse, perché duramente (e giustamente) criticata da qualche sopravissuto e da alcuni parenti dei sopravissuti: "che diritto avevo io di raccontare i fatti loro?". E' vero, in età giovanile non ci avevo pensato...ho scritto e pubblicato. Quindi ho chiuso il sogno nel cassetto e lasciato che altri individui proseguissero nella pubblicazione di documenti e storie non autorizzate. Sono battagliera, ma non ho il pelo sullo stomaco per brutalizzare la sensibilità ed il rispetto della privacy e dell'anima altrui. Mi sono detta "una cosa è quando un sopravissuto racconta la sua storia privata"...è libero di farlo...un'altra è quando studiosi o pseudo tali si appropriano di fatti privati altrui e le raccontano. I sopravissuti che ho conosciuto avevano ragione: meglio lasciar correre e mantenere le relazioni con loro (in seguito con la famiglia), continuare il percorso di vita in un rapporto di stima reciproca.
In seguito, ho avuto modo di comparare solo tecnicamente la grande affinità tra l'esodo degli Ebrei dalla Ex-Yugoslavia ed il rapporto mafioso con l'esodo degli anni '90 dall'Albania. In effetti, buona parte di loro emigra con il contributo di cosche contrabbandiere non meglio definite, perché l'iter è simile: apporto di denaro contro l'ipotetica acquisizione della libertà . Ed è così che hanno fatto gli Ebrei.
Ma che cosa riserva l'ipotetica libertà ? Nel caso storico della Shoà gli Ebrei si trovano ad affrontare problemi d'inserimento, d'emarginazione e di sopravvivenza che non sono dissimili da quelli degli emigrati degli anni 80 dall'Albania o altri paesi dell'Est. Con una differenza eclatante che, mentre gli Ebrei cercano la vita gli albanesi emigravano per migliorare il loro tenore di vita. Ma i problemi logistici erano e sono gli stessi.
A cercare rifugio in Italia erano stati in gran parte tutti quelli che credevano che l'Italia potesse diventare il loro "cuscinetto di sicurezza salvavita", non i più poveri o i più ricchi, ma chi era riuscito a racimolare, individualmente o con l'aiuto della comunità ebraica, quanto più denaro possibile, nell'illusione di ritrovare una speranza che nell'Europa dell'est era già andata perduta.
Il vicentino è stato quindi invaso da cittadini stranieri che alcuni nativi residenti consideravano "ospiti indesiderati", altri erano più tolleranti, altri ancora cercavano per quanto possibile di aiutarli. Gli ebrei internati nei Comuni del vicentino erano una piccola comunità , ma costituivamo un "problema" per una società attraversata non solo da pulsioni mussoliniane, ma spesso anche da quelle filo naziste, che anno dopo anno avrebbero eroso le basi sociali del regime mussoliniano
Non ho tracce di presenze ufficiali ebraiche a Bolzano Vicentino, ma la certezza che un uomo del Delasem (1) soggiornava sotto falsa identità in una locanda, arrivava per portare denaro e documenti, per contattare partigiani e contrabbandieri che portassero oltre il confine, verso la Svizzera gli internati. Si incontrava in questa locanda anche con Ebrei domiciliati nelle vicinanze di Sandrigo e Carmignano sul Brenta.
Questi Ebrei arrivati nel vicentino si portavano nel cuore e nella quotidianità le loro tradizioni: avevano lasciato in patria comportamenti che variavano dalla più stretta osservanza religiosa alla frequentazione della sinagoga nei soli giorni di festa solenne, matrimoni avvenuti nella quasi totalità all'interno del rispettivo gruppo di appartenenza religioso e in genere tra persone che avevano lo stesso status sociale. La kasheruth (L'insieme delle leggi alimentari ebraiche è chiamato Kasheruth che letteralmente significa "adatto, giusto, appropriato" e sono contenute nella Torah, il più sacro testo ebraico, corrispondente a quello che per i Cattolici è l'Antico Testamento), un tempo non remoto largamente rispettata in patria, era all'epoca solo una chimera e guai a far notare comportamenti diversi da quelli della popolazione locale. Religione, riti, feste erano state accantonate per dar spazio a una forzata e finta assimilazione. L'estraneazione dalla vita pubblica del paese era la regola, la più elementare delle precauzioni. Per molti di loro erano iniziati la fine di un sogno, il preludio di nuove tragedie e sofferenze. Nessuno di loro sapeva di essere controllato, erano convinti di essere "internati liberi", di fatto, lettere, parole, risparmi, spostamenti, qualsiasi cosa era debitamente controllata (spesso confiscata.). In tutta la provincia di Vicenza (come del resto in tutta Italia), come di prassi, le condizioni di vita degli ebrei internati, sebbene ben diverse da quelle dei campi di concentramento nazisti, erano comunque difficili: privati della libertà e di molti beni personali, soggetti spesso sottoposti alle angherie della burocrazia fascista, costretti a vivere in alloggi di fortuna, godevano di un sussidio che, soprattutto verso al fine del periodo di internamento, non bastava a coprire le più elementari esigenze e costringeva, pertanto, a intercedere presso benefattori privati, o organizzazioni assistenziali ebraiche come la Delasem. La caduta del Fascismo, l'inizio dell'occupazione tedesca e l'istituzione, da parte della Repubblica Sociale Italiana, dei campi di concentramento provinciali e nazionali (Ordinanza di polizia n. 5 del 30.11.1943), segnarono uno svolta cruciale nella storia di questi profughi dall'est, accomunandoli nel destino agli Ebrei italiani. Molti, grazie ai documenti di copertura, alle informazioni e ai mezzi messi a disposizione da sacerdoti e, talora, dalle stesse autorità locali, riuscirono a fuggire in Svizzera. Pochi, grazie al coraggio di famiglie del posto, rimasero nei paesi di internamento fino alla liberazione, come successe a David Levy, nascosto dai Dal Toso di Sossano. Quarantatrè (accertati) subirono la deportazione: alcuni finirono nel campo di Tonezza del Cimone, istituito nell'ex colonia alpina Umberto I, e da qui confluirono nel convoglio n. 6, formato a Milano e Verona il 30 gennaio1944 e diretto ad Auschwitz; altri, dopo una permanenza nelle carceri di Vicenza, furono trasferiti al campo nazionale di Fossoli di Carpi e confluirono nel convoglio n. 8, partito il 22 febbraio 1944 e giunto ad Auschwitz il 26 successivo.
Ci troviamo di fronte ad un impatto molto forte: provincia di Vicenza una realtà contadina, perché il Veneto di quegli anni era terra di contadini, emigranti, un popolo forte di una cultura popolare, fatta di essenze e forti valori "della famiglia veneta", trasmessi anche all'interno della vita lavorativa, più che di testi di studio. Molti degli internati invece erano imprenditori, laureati e conoscevano più di una lingua. Erano tutti di origine askenazita e si portavano dentro il cuore la straordinarietà della cultura yiddish, che prima ti incuriosisce e poi ti cattura: l'influenza dell'origine est-europea, ricca di proprietà intellettuali trasmette delle espressività particolari, paradossalmente liberali, trasmettendo i quotidiani interlocutori che sono il senso del sacro e del mistero, la sacralità dello studio, l'imprinting dialogico ed ermeneutica dello spirito talmudico, la sacralità dello studio e il relativo pragmatismo, le proprietà intellettuali e scientifiche e diciamolo pure, anche un pizzico di sana ironia yiddish che, in un mondo sempre più triste... non guasta mai. Il convergere di queste due differenze culturali, senza entrare nel merito del singolo privato, è stato vissuto in maniera contrastante: l'una subiva il fascino dell'altra, la cultura yiddish si mescolava con quella contadina e viceversa. Questo fenomeno fece scaturire parecchie controverse passioni, penalizzate dalle leggi razziali, ma l'amore supera ogni confronto e a fine guerra più di una coppia ha contratto "regolare matrimonio misto", altre invece hanno contribuito a sfociare in divorzi (la religione ebraica lo consentiva anche allora) o separazioni, in fughe, in singolari battaglie famigliari, in presunte o vere paternità . Tra i miei ricordi c'è quello di un uomo di Malo che mi ha raccontato di aver avuto una relazione extraconiugale con un signora ebrea e di lei mi disse "Era brutta, secca, con le gambe storte, ma conosceva la letteratura, la lirica, parlava tre lingue e quando mi dedicava una canzone io andavo in brodo di giuggiole...mia moglie era bella, opulenta e grezza e conosceva solo il veneto. Quello che quest'uomo non ha mai saputo ed ora lo posso dire perché deceduto...mantenendo il massimo riserbo sul suo nome, è che anche sua moglie ha avuto una relazione con un Ebreo!
Questo testo è simile e sotto certi aspetti uguale ai tanti che ho scritto in questi anni...solo poche sfumature di differenza: ma è questa storia che è uguale per tutti, che il comune degli internati sia Malo piuttosto che Sandrigo poco cambia: codici, valenze, amori e dolori sono tutti uguali.
LA GIORNATA DELLA MEMORIA
Il senso più profondo della Giornata della Memoria è quello di mantenere viva la memoria sul passato. La fine della guerra ha rivelato al mondo l'orrore di un progetto folle, premeditato e pianificato che non deve essere dimenticato perché sia a tutti di monito. E' importante ricordare sia l'eliminazione di milioni di ebrei, sia l'eliminazione di tutto ciò che veniva considerato "diverso": omosessuali, Testimoni di Geova, persone diversamente abili, obiettori politici, discriminazioni alle quali purtroppo ancor oggi capita di assistere. Le vittime della Shoà se potessero parlare non chiederebbero pietà credo che, invece, vorrebbero trasmettere l'allontanamento di quell'indifferenza che, purtroppo, permette a troppi giovani, ma non solo, di guardare a quelle orribili vicende con pericoloso distacco. Il sacrificio di milioni di vittime innocenti non deve mai cadere nell'indifferenza e nella dimenticanza e non bisognerebbe ricordare quanto accaduto solo il 27 gennaio, ma dovrebbe essere il primo pensiero quotidiano di ognuno di noi, affinché il valore della memoria rimanga un elemento cruciale e sensibile per la formazione delle nuove generazioni.
QUANDO FALLISCE IL SIGNIFICATO DELLA GIORNATA DELLA MEMORIA
I veri superstiti della Giornata della Memoria stanno scomparendo... quelli nati intorno agli anni 40 erano troppo piccoli all'epoca delle leggi razziali...ricordano poco...Gli altri hanno concluso o stanno concludendo il loro ciclo di vita.
Il significato della Giornata fallisce nel momento in cui la Giornata viene mercificata e vale a dire quando Comuni, Province e Istituzioni e Privati pagano delle persone per raccontare la Giornata. Significa che queste istituzioni non hanno saputo creare, nel corso degli "un archivio", non hanno saputo formare giovani che siano i prosecutori di un'iniziativa che non dovrebbe essere soggetta al pagamento di alcunché...Quando si ricorda la Giornata della Memoria dietro compenso non è certo un esempio educativo nei confronti di tutti, ma soprattutto dei più giovani. Sfruttare lo sfruttamento altrui, mercificare il dolore vissuto, svuotare persone che non possono difendersi o esprimersi sono reati che la nostra stessa coscienza dovrebbe pesantemente punire.
E credo che non ci sia nulla di più grave che pagare oratori, non parte in causa, nemmeno parenti delle vittime che raccontano il dolore degli altri. E...come entrare nel guardaroba dei ricordi di viaggio altrui, andando al di là della funzione, arrivando là con la costruzione artefatta, seguendo infiniti percorsi geografici, che un corpo e una mente nella percezione della disperazione possono percorrere in un secondo....E perché allora lo si fa? Se fosse per amore non lo si fa contro accettazione di denaro!
Paola Farina
(1) DELASEM, acronimo di Delegazione per l'Assistenza degli Emigranti Ebrei, è stata un'organizzazione di resistenza ebraica che operò in Italia tra il 1939 e il 1947 per la distribuzione di aiuti economici agli ebrei internati o perseguitati, potendosi avvalere anche del supporto di numerosi non ebrei.
Si calcola che nel solo periodo bellico la DELASEM sia stata capace di distribuire aiuti per più di 1.200.000 dollari, di cui quasi 900.000 provenienti dall'estero.
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