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11 settembre, la guerra che nessuno ha vinto

Di Redazione VicenzaPiù Domenica 11 Settembre 2011 alle 00:01 | 0 commenti

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Di Mattia Toaldo, Rassegna.it

La guerra al terrorismo lanciata dagli Usa non è ancora finita. Ma Iraq e Afghanistan sono un fallimento. Anche Al Qaeda ha perso. E milioni di arabi in rivolta snobbano la "democrazia esportata" da Bush (qui le foto del 2001, qui quelle di oggi, qui il link a un altro 11 settembre, n.d.r.)

Le matricole che tra pochi giorni si siederanno sui banchi delle università americane non avevano ancora finito le scuole elementari l’11 settembre del 2001. Quello che avrebbe fatto il loro paese in reazione a quegli attacchi era stato elaborato alcuni anni prima della loro nascita o mentre loro imparavano a parlare.

Tre giorni dopo gli attacchi, il Congresso avrebbe garantito con una risoluzione congiunta approvata a larghissima maggioranza una quasi totale carta bianca a George W. Bush, dandogli l’autorizzazione “ad usare tutta la forza necessaria ed appropriata contro quelle nazioni, organizzazioni o persone che lui determini abbiano pianificato, autorizzato, commesso o aiutato gli attacchi terroristici dell'11 settembre”.

Mentre queste ragazze e questi ragazzi cominciavano a leggere i primi romanzi, una legge approvata sempre a larghissima maggioranza, il "Patriot act", avrebbe creato un sistema di sorveglianza di massa e permesso le "consegne straordinarie" (extraordinary renditions) di sospettati di terrorismo nelle mani di servizi segreti di Paesi del terzo mondo "amici" e dove era permessa la tortura. L'11 settembre aveva cambiato l'America, la sua politica estera e il suo modo di fare la guerra.

Le matricole del 2011 avevano solo 10 anni quando, nel 2002, il loro governo emanò una nuova Strategia per la Sicurezza Nazionale che faceva degli attacchi militari preventivi agli stati sponsor del terrorismo il suo asse principale. La decisione su chi e quando colpire, ovviamente, spettava al presidente e ai suoi stretti consiglieri.

Durante il loro primo anno di scuola media, il paese si sarebbe imbarcato in una delle sue guerre più lunghe e gravide di sconfitte: fu soprattutto in nome dell'11 settembre che venne dichiarata guerra all'Iraq, per ritirarsi solo nel 2011 lasciando dietro di sé un dittatore in meno e uno stato "semi-fallito" in più. In realtà quella guerra era stata già pensata dagli stessi conservatori e neoconservatori americani a metà degli anni '90, con la creazione del Progetto per un Nuovo Secolo Americano (PNAC, qui il loro appello al presidente Clinton del 1998).

La guerra al terrorismo dichiarata dopo l'11 settembre (e in nome delle vittime di quel giorno) aveva radici ancora più lontane nel tempo. Nel suo "The Rise of the Volcans", lo storico e giornalista americano James Mann ripercorreva i passi di alcuni membri fondamentali del "gabinetto di guerra di George W. Bush": la maggior parte di loro aveva fatto le prime esperienze politiche e di governo negli anni 70, criticando la distensione con l'Urss in nome di una politica estera che non facesse compromessi con regimi considerati moralmente riprovevoli e poggiasse invece su una solida e incontrastata superiorità militare.


La presidenza Reagan e i primi attacchi terroristici contro gli americani avevano permesso ad alcuni di loro di trasferire questo atteggiamento alla politica mediorientale dove avevano trovato in Gheddafi il nemico perfetto: sovversivo e amico dei sovversivi, pazzoide e apparentemente irrazionale, ferocemente antioccidentale, cliente dell'industria sovietica degli armamenti e nemico giurato di Israele, crudele con il suo popolo, intenzionato a dotarsi di armi di distruzione di massa.

Proprio nella lotta contro il Colonnello vennero elaborate alcune delle idee chiave utilizzate dopo l'11 settembre 2001: la visione del terrorismo come una forma di guerra alla quale bisognasse rispondere con la guerra; la necessità degli attacchi preventivi, dando pieni poteri al presidente per decidere tempi e obiettivi; l'individuazione del problema del sostegno statale ai terroristi come nodo centrale della questione. Già allora Gheddafi, nelle dichiarazioni americane, faceva parte della "Lega del Terrore" degli Stati che sostenevano i terroristi, quella che nel 2002 sarebbe diventata l'Asse del Male.

E' solo un'ironia della storia che la caduta di Gheddafi avvenga oggi, quando la guerra al terrorismo sembra finita. Sembra, perché in realtà, nonostante le dichiarazioni in tal senso di Obama e i ritiri da Afghanistan e Iraq, essa ha solo cambiato volto: continua con gli attacchi di droni telecomandati in Pakistan, Somalia e Yemen. Grazie al fatto che questi piccoli aerei portano sì bombe ma non soldati, non c'è bisogno di autorizzazione da parte del Congresso e tutto avviene, sostanzialmente, senza grande pubblicità e senza discussione pubblica.

La battaglia non è finita, quindi, ma è terminata solo la sua parte "formale": quella in cui uno Stato dichiarava guerra ad un altro Stato e schierava il suo esercito regolare. E, forse proprio per questo, perdeva. L'America dieci anni dopo l'11 settembre non è più quella "iperpotenza" solitaria che poteva permettersi di attaccare l'Iraq avendo contro mezzo mondo. E' un paese in declino che, mentre lo sviluppo economico si spostava verso la Cina, l'India o il Brasile è arrivato a combattere fino a tre guerre contemporaneamente in Medio Oriente e anche per questo si è indebitato fino al collo.

Neanche i fondamentalisti islamici, però, possono dire di aver vinto la parte formale della guerra al terrorismo. Hanno perso l'Afghanistan senza conquistare concretamente nessun altro paese, se non alcune province dello Yemen o qualche area della Somalia e del Pakistan. Il loro leader è stato ucciso, ma soprattutto la loro causa è passata in secondo piano.

Dieci anni dopo l'11 settembre, quando le matricole americane di quest'anno finivano le scuole superiori, milioni di arabi si sono rivoltati non in nome della guerra santa ma per avere democrazia. I partiti islamici oggi dati per favoriti in Egitto e Tunisia, come ci spiegano gli esperti Hussein Agha e Robert Malley, cercheranno di imitare l'esempio turco, "moderato" e democratico, piuttosto che quello talebano. E chi ancora nella regione ha paura a sollevarsi, come i cristiani siriani, è perché teme di fare la brutta fine degli iracheni non-mussulmani a seguito, proprio, della guerra al terrorismo combattuta dagli USA in nome dell'11 settembre.

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Giovedi 27 Dicembre 2018 alle 17:38 da Luciano Parolin (Luciano)
In Panettone e ruspe, Comitato Albera al cantiere della Bretella. Rolando: "rispettare il cronoprogramma"
Caro fratuck, conosco molto bene la zona, il percorso della bretella, la situazione dei cittadini, abito in Viale Trento. A partire dal 2003 ho partecipato al Comitato di Maddalene pro bretella, e a riunioni propositive per apportare modifiche al progetto. Numerose mie foto del territorio sono arrivate a Roma, altri miei interventi (non graditi dalla Sx) sono stati pubblicati dal GdV, assieme ad altri come Ciro Asproso, ora favorevole alla bretella. Ho partecipato alla raccolta firme per la chiusura della strada x 5 giorni eseguita dal Sindaco Hullwech per sforamento 180 Micro/g. Pertanto come impegno per la tematica sono apposto con la coscienza. Ora il Progetto è partito, fine! Voglio dire che la nuova Giunta "comunale" non c'entra più. L'opera sarà "malauguratamente" eseguita, ma non con il mio placet. Il Consigliere Comunale dovrebbe capire che la campagna elettorale è finita, con buona pace di tutti. Quello che invece dovrebbe interessare è la proprietà della strada, dall'uscita autostradale Ovest, sino alla Rotatoria dell'Albara, vi sono tre possessori: Autostrade SpA; La Provincia, il Comune. Come la mettiamo per il futuro ? I costi, da 50 sono saliti a 100 milioni di € come dire 20 milioni a KM (!) da non credere. Comunque si farà. Ma nessuno canti Vittoria, anzi meglio non farne un ulteriore fatto "partitico" per questioni elettorali o di seggio. Se mi manda la sua mail, sono disponibile ad inviare i documenti e le foto sopra descritte. Con ossequi, Luciano Parolin [email protected]
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