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Produzione lenta, la rivincita degli operai-artigiani

Di Giulio Todescan Mercoledi 24 Giugno 2009 alle 10:16 | 0 commenti

In una fabbrica di Molvena si recuperano vecchi macchinari e si torna a produrre con i ritmi degli anni sessanta. L’imprenditore-filosofo Bonotto: "Vogliamo riscoprire i prodotti a regola d’arte. Sono gli unici che sopravviveranno alla crisi"

 

Una fabbrica lenta, nell'epoca della produzione «just in time», della delocalizzazione e dei flussi infiniti di merci nelle reti fisiche e immateriali globali, può sembrare un ossimoro, una contraddizione in termini. E certamente lo è. Ma, per chi abbia voglia di sfruttare la crisi economica più grave del dopoguerra per porsi qualche domanda, può essere una provocazione utile. A lanciarla è un imprenditore vicentino molto atipico, Giovanni Bonotto, direttore creativo della ditta di famiglia.

«Quando una fabbrica chiude andiamo a vedere che tecnologia aveva dentro, e la recuperiamo. Molte macchine che usiamo le abbiamo comprate in Giappone, da fabbriche che stavano chiudendo. Il nostro obiettivo è mantenere la memoria, le emozioni che gli standard industriali hanno ucciso» racconta.

 

La lentezza di cui parla Giovanni Bonotto è per ora una «cellula» nella produzione della ditta, ma il suo intento è estendere questo prototipo a tutta la fabbrica. Vecchi macchinari teoricamente «superati» vengono rimessi in sesto, le maestranze abituate a «schiacciare» un bottone vengono formate per recuperare il sapere artigianale necessario per trattare con bulloni, pistoni e altre diavolerie da tempo messe in soffitta per lasciare spazio ai bit e agli schermi.

Duecento dipendenti, 35 milioni di fatturato, la Bonotto è una solida industria tessile con sede a Molvena, vicino a Bassano del Grappa: un paese in cui si respira l'aria del «miracolo del nordest». A un tiro di schioppo si trovano le sedi di Dainese e Diesel, tanto per fare due nomi a caso.

«Il concetto di fabbrica lenta è questo: sta finendo l'era del prodotto che è solo comunicazione, arriva una nuova era dove l'"amore" sta tornando come un valore. La comunicazione ci ha saturato, dobbiamo capire che prima di comunicare ci vuole una storia vera da raccontare – spiega Bonotto, esperto di arte e semiotica ma capace di applicarla a lavorazioni molto concrete -. Vogliamo riscoprire i prodotti "a regola d'arte" come una volta: gli operai non devono più essere alienati, premere un bottone, ma devono tornare maestri d'arte. Solo quelli resteranno, dureranno nel tempo. Per far questo ci vuole la tecnologia: scopriamo ad esempio che le macchine usate fino agli anni sessanta nel tessile facevano il prodotto con molta più lentezza, ma allo stesso tempo mille operai messi insieme riuscivano a dare al prodotto un potere maieutico. Un tessuto, così, parla da solo, non deve più essere comunicato». Lasciare anche alcune imperfezioni, spiega Bonotto, può essere una mossa vincente se in cambio il tessuto torna ad avere un'anima. Recuperando ad esempio una formula di qualità come «pura lana vergine», un tempo conosciuta e ricercata, e che oggi presso i ventenni può suscitare al massimo qualche ironia.

Questo modello può essere esportato in altre aziende? La risposta non può essere semplice né univoca, anche perché la Bonotto è una mosca bianca, una media impresa che non può essere paragonata ai piccoli laboratori sparsi nella pianura vicentina. Gli stessi che negli ultimi dieci anni – ben prima della crisi globale – sono stati decimati dalla concorrenza asiatica, ma anche portoghese o dei paesi dell'Europa dell'est, capaci di batterli proprio sul terreno a loro congeniale, quello dei bassi costi. «Noi siamo abbastanza tranquilli rispetto alla crisi, perché siamo solidi e internazionalizzati. I piccoli laboratori invece hanno sempre vissuto alla giornata, guardando al massimo al prossimo semestre, ma ora che finiscono le commesse non sanno dove sbattere la testa – argomenta Bonotto -. Non sono mai stati laboratori specializzati in qualcosa, sono stati schiacciati dalla logica del produrre con il minimo costo al minuto. Ora che questo lavoro lo fanno  meglio gli altri, resisteranno solo i laboratori che hanno al loro interno dei maestri artigiani: quelli che il mercato premia, quelli che hanno una memoria storica. Sopravviverà il modello della bottega rinascimentale». A patto di sapersi coniugare con un orizzonte di lungo respiro: «C'è da dire che il piccolo artigiano non ha un'ampia visione del futuro: la stessa cosa è successa con i laboratori orafi, che si sono sgonfiati negli ultimi anni. Solamente l'industria ha nel proprio DNA la visione del futuro».

L'altro motore della «visione» di questo atipico imprenditore è l'arte: una passione ereditata dal padre Luigi, che ha avviato una collezione di migliaia di opere del movimento artistico d'avanguardia Fluxus. Giovanni ha portato un passo oltre questo interesse, un passo che si traduce nel portare l'arte dentro i processi produttivi della fabbrica. «Alla sera parlo con gli artisti, mi stimolano, e la mattina quei discorsi mi tornano utili in azienda. Per noi è naturale lavorare sia sul piano industriale che su quello culturale. La cultura sarà il plusvalore della nuova era in cui stiamo entrando, insieme al prodotto produco un'identità culturale, sempre di più sarà questo che i consumatori cercheranno – continua l'imprenditore -. A Bassano vogliamo realizzare l'Archivio Bonotto, nell'ex macello in riva al Brenta». «Non sarà un museo, ma una fabbrica della cultura – afferma categorico -. Il modello delle grandi mostre calate dall'alto è finito. Abbiamo bisogno di produrre cultura coinvolgendo il territorio, creando in esso delle domande. Se il territorio è ricco, anche la mia fabbrica è più ricca. E il territorio che ci sta intorno, in questo periodo, ci preoccupa molto». L'ex macello, che fino a pochi anni fa ospitava il centro sociale Stella Rossa, è stato acquistato e sarà convertito in una «fabbrica della cultura». Giusto per non smentire il primato nordestino della produzione, materiale o culturale che sia.

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Giovedi 27 Dicembre 2018 alle 17:38 da Luciano Parolin (Luciano)
In Panettone e ruspe, Comitato Albera al cantiere della Bretella. Rolando: "rispettare il cronoprogramma"
Caro fratuck, conosco molto bene la zona, il percorso della bretella, la situazione dei cittadini, abito in Viale Trento. A partire dal 2003 ho partecipato al Comitato di Maddalene pro bretella, e a riunioni propositive per apportare modifiche al progetto. Numerose mie foto del territorio sono arrivate a Roma, altri miei interventi (non graditi dalla Sx) sono stati pubblicati dal GdV, assieme ad altri come Ciro Asproso, ora favorevole alla bretella. Ho partecipato alla raccolta firme per la chiusura della strada x 5 giorni eseguita dal Sindaco Hullwech per sforamento 180 Micro/g. Pertanto come impegno per la tematica sono apposto con la coscienza. Ora il Progetto è partito, fine! Voglio dire che la nuova Giunta "comunale" non c'entra più. L'opera sarà "malauguratamente" eseguita, ma non con il mio placet. Il Consigliere Comunale dovrebbe capire che la campagna elettorale è finita, con buona pace di tutti. Quello che invece dovrebbe interessare è la proprietà della strada, dall'uscita autostradale Ovest, sino alla Rotatoria dell'Albara, vi sono tre possessori: Autostrade SpA; La Provincia, il Comune. Come la mettiamo per il futuro ? I costi, da 50 sono saliti a 100 milioni di € come dire 20 milioni a KM (!) da non credere. Comunque si farà. Ma nessuno canti Vittoria, anzi meglio non farne un ulteriore fatto "partitico" per questioni elettorali o di seggio. Se mi manda la sua mail, sono disponibile ad inviare i documenti e le foto sopra descritte. Con ossequi, Luciano Parolin [email protected]
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